Una Donna – di Annie Ernaux
No, non è un romanzo, non è una biografia e neppure un saggio. E’ qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia. E’ il racconto di una vita, quella della madre di Annie Ernaux, scrittrice francese, Premio Nobel per la letteratura 2022.
Un libro che colpisce innanzitutto per il suo stile di scrittura, scarna, piatta, essenziale, apparentemente priva di sentimenti, antiretorica. Proprio attraverso l’esposizione di semplici fatti, della descrizione di vicende intime, dettagli anche minuti emerge un quadro complessivo della realtà sociale nella quale si svolge tutta la vicenda. Un mosaico si forma lentamente sotto i nostri occhi. La memoria personale è frutto anche di “radici, estraniamenti, vincoli collettivi” come afferma la motivazione dell’Accademia di Svezia nel conferimento del Premio. La storia di una singola donna diventa la chiave per attraversare la storia di una collettività, non solo quella degli abitanti di Yvetot, la piccola cittadina della Normandia nella quale era nata e cresciuta, ma quella più ampia di un’intera classe sociale che nel corso del ‘900 si è trovata a passare da una economia agricola e proletaria a quella piccolo borghese.
Quanta fatica, quanta sofferenza sorda, quanta frustrazione in quella trasformazione. Quante aspettative e incomprensioni anche all’interno della medesima famiglia.
“Cerco di non considerare la violenza, gli eccessi di tenerezza, i rimproveri di mia madre soltanto come peculiari del suo carattere, ma di situarli all’interno della sua storia e della sua condizione sociale. Questa maniera di scrivere, che mi pare andare nella direzione della verità, mi aiuta ad uscire dalla solitudine e dall’oscurità del ricordo individuale tramite la scoperta di un significato più generale.” La madre di Annie Ernaux era figlia di contadini, per scelta paterna aveva frequentato solo le elementari, poco più che adolescente era entrata in fabbrica. Chi conosce quei luoghi sa come possano essere anonimi, le case basse tutte uguali lungo strade che portano a niente. Cittadine di poche anime, dove tutti sanno tutto di tutti e il giudizio, spesso il pregiudizio, sulle origini sociali, segnano la prospettiva di vita. Andare a scuola era considerato sconveniente, una donna, se non dava scandalo, poteva aspirare a diventare madre e moglie di un onest’uomo senza troppi grilli per la testa. Dopo il matrimonio la decisione di lasciare la fabbrica e di aprire una drogheria, il sentimento di orgoglio per una scelta rischiosa che, sperava, avrebbe comportato un piccolo incremento di reddito, un avanzamento nella scala sociale.
“Mia madre si lavava sempre le mani prima di aprire un libro”.
Un dettaglio, una frase rivelatrice. La consapevolezza di non essere sufficientemente colta, all’altezza di quel mondo nuovo che emergeva dalle riviste patinate, il lavoro, il lavoro, il lavoro per permettere alla propria figlia di fare un ulteriore passo di emancipazione. Annie Ernaux è spietata con se stessa e anche con sua madre: da piccola la adorava, voleva diventare come lei, persino fisicamente, poi ne percepisce i limiti intellettuali, se ne distacca, si allontana dal mondo chiuso di quella piccola drogheria, di quel paesino di provincia, va a Parigi, si sposa con il rampollo di una famiglia più agiata, diventa insegnante, scrittrice, intellettuale di sinistra, fa proprie le battaglie per i diritti delle donne, degli esclusi ma con quegli esclusi, quella gente da cui lei stessa proveniva, quella madre che l’aveva partorita e sostenuta con tutte le sue forze, a parlarci non riesce più. Afferma nel corso di un’ intervista:“Pensavo orgogliosamente e ingenuamente che scrivere dei libri, diventare scrittore al termine di una stirpe di contadini senza terra, di operai e di piccoli commercianti, di gente disprezzata per i loro modi, il loro accento, la loro ignoranza, sarebbe bastato a riparare l’ingiustizia sociale della nascita. Che una vittoria individuale potesse cancellare secoli di dominazione e povertà”.
La madre di Annie Ernaux è morta il 7 aprile 1986 (“una settimana prima di Simone de Beauvoir” scrive l’autrice rivelando un duplice lutto e una duplice filiazione: una genetica e una culturale). Negli ultimi anni, chiusa la drogheria ormai sorpassata dall’apparire dei grandi centri commerciali, la sua vita è trascorsa visitando la figlia, amici e nipoti e soprattutto cercando di trovare modalità nuove per affermare il suo senso del dovere (contribuire alle spese della giovane famiglia), l’utilità del suo lavoro, del suo apporto e dunque anche del senso della sua presenza. Ma quando si acquista una lavatrice non c’è più necessità che qualcuno si prodighi a lavare i panni, se c’è la televisione non è più necessaria una nonna che legga le fiabe ai nipotini. La civiltà tecnologica non sostituisce soltanto macchinari antiquati ma anche i ruoli che danno alle persone il sentimento della dignità di esserci per qualche cosa. Sparisce la civiltà che su quel sentimento di responsabilità, di dovere e di dignità ha costruito la sua storia. Poi l’Alzheimer, la lungo degenza, le parole sempre più confuse e perdute. “A che sarebbe servito continuare a vivere per anni in quello stato” commentano i parenti dopo il funerale. “Una frase, una certezza che non capisco” scrive Ernaux per poi concludere: “Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo”.
Roberto Cociancich