Accabadora – di Michela Murgia

“Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata”. Può una sola frase riassumere un libro? Certamente no, ma se dovessi sceglierne una coglierei questa per sottolineare un tema fondamentale di Accabadora, il bel libro di Michela Murgia scrittrice di qualità da poco prematuramente scomparsa. Sono le parole che  Tzia Bonaria Urrai rivolge a Maria, una giovane che ha preso a vivere presso di sé, una fill’e anima come si diceva dei bambini presi in affido a Soreni, uno sperduto villaggio dell’entroterra sardo. Di che acqua stiamo parlando? Stiamo parlando della vita e della morte. O meglio: della responsabilità di lasciare in vita una persona che chiede di morire o di aiutarla invece a varcare l’ultima soglia. Chi può prendersi questa responsabilità? Chi può dire che non si troverà mai a dover prendere una decisione per una persona che non riesce più a vivere ma neppure a morire? Magari un parente, un genitore, una persona amata? Ecco l’acqua che nessuno può dire di non voler mai bere. Ecco che questa storia ambientata in una Sardegna remota, ben descritta nelle sue tradizioni rurali e arcaiche trova la sua immediata attualità anche per chi vive in una megalopoli contemporanea. I grandi temi che riguardano l’esistenza umana sono immutabili attraverso  le generazioni e le latitudini. Cambiano forse le parole ma alla fine il dramma morale è sempre lo stesso. Accabadora è il nome che indicava in Sardegna le persone che si incaricavano di portare una morte dolce a chi era in fin di vita mitigandone le sofferenze. In realtà non è affatto certo che questa usanza ci sia mai stata ma questo è irrilevante ai fini del nostro racconto perché il tema oggi si ripropone anche da noi con la stessa drammaticità e se si usa al posto di accabadora la parola eutanasia o clinica svizzera cambia davvero poco soprattutto se ci troviamo di fronte a casi come quelli di Eluana Englaro o DjFabo.

Dunque Tzia Bonaria Urrai non fa solo la sarta come credeva la piccola Maria ma qualche notte, quando viene chiamata, esce di casa, cammina come un’ombra stretta al muro delle case, entra nella stanza dove giace il moribondo, abbraccia la moglie, i figli, i parenti che hanno vegliato in preghiera su di lui e poi li fa uscire tutti, libera la stanza da ogni immagine, le statue i segni e le benedizioni e quindi si avvicina, mormora qualche parola e infine appoggiando un cuscino sul volto dell’agonizzante ne cancella anche l’ultimo respiro. Questo faceva Tzia Bonaria che quindi non era solo una sarta e in paese non lo diceva nessuno ma lo sapevano tutti tranne Maria troppo giovane per poter ragionare se questo era bene o male e quindi era meglio che non sapesse nulla. Ma si sa certe cose, specialmente queste, non rimangono segrete per sempre.  La religione, le sue liturgie, le sue usanze, le parole dei preti  dovrebbero aiutare ad orientarci nel labirinto in cui la nostra vita si trova talvolta tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Michela Murgia, che pure aveva una solida formazione religiosa cattolica, è consapevole di come l’apparato liturgico devozionale appaia talvolta inadeguato a dare risposte alle domande di chi si trova in quel labirinto. Il personaggio di Don Frantziscu Pisu, parroco di Soreni, ne è l’emblema e questo povero sacerdote nonostante i suoi migliori sforzi di venire incontro ai drammi interiori e alle domande di senso sull’esistenza che gli vengono rivolte – con rabbia talvolta o anche col pianto – di fatto appare inutile, inefficace e irrilevante. Dunque cosa rimane? Maria, certo, è giovane ma il libro è anche un racconto di formazione, la storia di un’anima pura che si trova costretta dalle vicende della vita a maturare, a soffrire, a prendere posizione, sulle cose, sulle persone, sulle scelte. Come quella di dare la vita e la morte. E’ un processo di lento discernimento, l’acquisizione di una consapevolezza fondata non sull’adesione acritica a modelli ideologici o culturali ma su una  verità dei sentimenti che Maria scopre e coltiva  verso le  persone che le stanno intorno. La sofferenza interiore è la strada verso la comprensione della verità, a volte intima e spesso ferita, della vita degli altri. Da un atteggiamento di giudizio categorico a priori, ancorché  ispirato da una forte spinta valoriale (ecco la frase: “Io di quell’acqua non berrò mai!”), c’è un passaggio all’accoglienza di una verità diversa, all’accettazione o quantomeno alla comprensione delle persone così come sono, con tutte le loro fragilità e contraddizioni. con il loro fardello di bene e di male. Ecco, comprensione, accoglienza  sono parole più adatte di accettazione per descrivere il percorso interiore di Maria. Comprensione che oltre alla sacralità e alla dignità della vita stanno anche la dignità e sacralità della morte. Una consapevolezza che mette in moto il ruolo di responsabilità che abbiamo verso noi stessi e verso gli altri. Domande ineludibili che ciascuno di noi prima o poi rischia di doversi porre e che, anzi, questo romanzo, con ritmo sobrio, elegante ma inesorabile, ci sussurra con parole sarde ma perfettamente comprensibili: anche tu di quell’acqua un giorno dovrai bere. 

Roberto Cociancich 

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