Finché non saremo liberi – di Shirin Ebadi
Quanto manca al termine della notte? La morte pochi giorni fa di Armita Geravand, la giovane sedicenne di Tehran, picchiata dalla sorveglianza della metropolitana per il semplice fatto di essersi tolta il velo, dovrebbe risvegliare in noi l’attenzione e la solidarietà verso ciò che le donne stanno subendo in Iran. Certo, l’opinione pubblica occidentale si stanca facilmente, si distrae, cerca continuamente nuovi stimoli e dimentica le cause dei diritti non appena esse scivolano fuori dalla prima pagina dei quotidiani. Spesso noi dimentichiamo quanto sia importante per coloro che si battono per i diritti negati il contributo che la nostra attenzione può portare alla loro causa. Esistono però dei rimedi. Contro la sonnolenza delle nostre coscienze, contro la distrazione dei media, contro l’indifferenza della politica politicante sì, esistono dei rimedi. Il primo è la lettura, sissignori, la lettura di libri importanti come quello scritto da Shirin Ebadi, magistrato, avvocato, attivista iraniana, premio Nobel per la pace 2003, dal titolo “Finché non saremo liberi”. Un racconto in prima persona che descrive la notte. Di come essa sia scesa su quel Paese meraviglioso e dalla cultura millenaria che è l’Iran e che fu la Persia. Di come poco per volta, dopo il golpe orchestrato dalla CIA nel 1953 contro il primo ministro Mossadegh, che aveva nazionalizzato il petrolio e il gas, esso sia scivolato nel fanatismo religioso, nella rivoluzione Khomeinista, nell’isterismo politico del regime nazi-fascista di Ahmadinejad. Un regime che impicca gli adolescenti appendendoli alle gru se sospettati di avere avuto rapporti sessuali prima del matrimonio. Un regime che ha fatto dell’intimidazione verso i suoi stessi cittadini la regola di governo, della repressione sistematica il modo con il quale regolare i conti con la dissidenza. Shirin Ebadi, in realtà, non si è mai posta come oppositrice politica ma facendo leva sulla sua preparazione giuridica si è sempre battuta per la tutela dei diritti individuali delle persone che si rivolgevano a lei come suoi clienti. La parola cliente è fuorviante perché Shirin Ebadi ha fatto della gratuità del suo lavoro un tratto distintivo, un modo per sottolineare il carattere disinteressato della sua battaglia, in definitiva anche la miglior difesa contro gli attacchi e la delegittimazione sul piano personale che il regime degli Ayatollah ha avviato nei suoi confronti. Ciò che colpisce sfogliando le pagine del libro è la capacità, dico di più: la volontà, di Shirin Ebadi di mantenere viva la sua umanità, l’affetto e le cure di una madre verso le figlie, la complicità amorosa con il marito, l’accoglienza verso gli amici e gli ospiti. E proprio verso questa umanità si scaglia la ferocia inquisitrice del regime, che poco a poco eroderà intorno a lei tutto ciò che è riuscita a costruire, il suo lavoro di magistrato, la rete di collaborazioni con altri attivisti, la sua associazione per i diritti, la possibilità di viaggiare, la sicurezza della sua famiglia, la saldezza del suo matrimonio. Shirin Ebadi pensava che l’attribuzione del Premio Nobel per la Pace potesse preservarla dall’abisso e garantirle una sorta di immunità. Ma non è così e, costretta all’esilio volontario per non essere arrestata, assiste allo sbriciolamento di tutto ciò che è stata la sua vita nel Paese in cui è nata e cresciuta e che ama. Chiunque abbia letto 1984 di George Orwell non può evitare di cogliere le similitudini tra l’opera immaginaria del grande scrittore inglese e l’esperienza vissuta da questa straordinaria donna iraniana. Le similitudini con tutti i Paesi dove le libertà individuali sono sacrificate al fanatismo ideologico o religioso. E’ per questo che un libro come “Finché saremo liberi” non è solo un rimedio contro il sonno della ragione e la pigrizia delle nostre coscienze ma anche un vaccino per le nostre capacità indebolite di reagire all’erosione degli spazi di libertà politica. L’Iran agli inizi degli anni ’70 non era quasi in nulla diverso dalle nostre società occidentali e ben rappresenta un possibile esito delle crisi che attraversiamo. Una testimonianza da tenere tanto più presente nel momento in cui il regime degli Ayatollah torna ad avere un ruolo e un’influenza centrale nel conflitto mediorientale la cui complessità non deve farci dimenticare che vogliamo uscire dalla notte.
Roberto Cociancich