11 maggio 2022 – 10:35
Pia Ucelli di Nemi Majno compie cento anni: «Papà fondò il museo della Scienza e si oppose ai fascisti»
di Marta Ghezzi
Davanti al coro ligneo, si commuove. «Papà l’aveva scovato in Liguria, in una sacrestia in disuso, al rientro a Milano continuava a ripetere “l’abbiamo trovato”, già lo immaginava in questa sala affrescata del museo e l’idea lo riempiva di gioia». È un ricordo di (quasi) settanta anni fa, intatto per Pia Ucelli di Nemi Majno, figlia di Guido Ucelli di Nemi, l’industriale fondatore del Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci. La signora, che ha compiuto cento anni il 5 maggio, recupera aneddoti, nomi, date, del passato e del presente, con lucidità e precisione millimetrica. A farle festa nella casa di via Cappuccio, dove è nata e ha passato l’intera vita, c’erano i sei figli (una accolta in affido da adolescente), i dodici nipoti e i tre bisnipoti. Ieri, invece, il brindisi in suo onore è stato con la famiglia allargata del polo museale. «Ancora un’intervista?» chiede lei, e sorridendo, «del resto, con una vita così lunga».
Il marito Gianluigi Majno
Il primo pensiero è per il marito Gianluigi Majno, con ironia rivela,«mi toccava sempre dire no, non sono quei Majno, è un’altra famiglia». Poi racconta di aver ripreso in mano, negli ultimi giorni, le sue lettere scritte durante la seconda guerra mondiale. «Era in Marina, di stanza nel Mar Nero, mi hanno colpita gli accenni all’acciaieria di Mariupol e a Sebastopoli, nomi dimenticati che oggi ricorrono quasi ogni giorno, è impressionante il ricorso della Storia». Per stemperare l’amarezza, estrae un ricordo più lieve, «l’avevo conosciuto alle elementari, era il fratello di una mia compagna, e bollato come antipatico, mi faceva dispetti». Il matrimonio a luglio del ’45, «dovemmo aspettare l’abrogazione delle leggi razziali, sua madre era battezzata ma di origine ebraica, e questo ci impediva di sposarci». Si torna alla guerra. «Io però ho fatto poco», dice. Interviene una nuora, «non è vero, recapitavi i biglietti dei detenuti di San Vittore che suor Enrichetta Alfieri faceva arrivare a casa vostra». Lei ribatte, «nulla in confronto alle azioni di mia sorella Bona che si unì alla brigata delle Fiamme Verdi, e ai miei genitori, che finirono a San Vittore per aver cercato di salvare Gino e Bianca Minervi, fratello e cognata di Arrigo Minervi, lo scultore del portale del Duomo, loro grande amico. A pochi metri dalla frontiera il passatore tradì il gruppo, il bilancio della soffiata furono sessantaquattro morti». E ancora, «nessuno in famiglia sapeva di Bona, né di mamma e papà, si agiva in silenzio. Mio padre fu liberato grazie ad amici, per la mamma in lista per la deportazione intervenne il cardinale Schuster».
Pioniera del volontariato milanese
La signora, laureata in Lettere in Cattolica, è stata una pioniera del volontariato milanese. «A fine anni Sessanta — ricorda — varcai la soglia del Tribunale dei Minori per occuparmi, non retribuita, dello schedario degli orfani abbandonati negli istituti. Incredibilmente, nessuno sapeva quanti fossero. Dopo il censimento, continuai a seguire le adozioni straordinarie». Da quell’ufficio nascerà qualche anno dopo il Cam, Centro Ausiliario per i Problemi Minorili, che ha cambiato le sorti di migliaia di ragazzini. Lei sottolinea, «non ero sola, eravamo un gruppo di donne, Giusi Cutrera, Anita Pavesi, Carla Bassetti, che credeva nella solidarietà sociale». Con i bicchieri sollevati per il brindisi, torna sul museo, «il sogno di una vita di mio padre, da quando era studente di Ingegneria al Politecnico, per lui era inaccettabile che l’Italia non seguisse il corso della Scienza. Aveva promosso il recupero di navi romane dal lago di Nemi — prosegue —, e raccoglieva oggetti, macchinari, veicoli».
Il desiderio di un’Italia nuova
La ricerca di una sede per il museo che andava componendosi fu lunga, il mecenate intravide il potenziale del luogo nonostante fosse semi-distrutto, e nel ’53 inaugurò il Museo. «Non smise mai di cercare fondi, inchiodava amici, industriali, enti, ringraziandoli in anticipo e affermando: “Grazie per la collaborazione e la donazione che farete”». Ai saluti Pia Ucelli di Nemi Majno conclude, «il presente, e non mi riferisco solo all’Ucraina, ha tradito le speranze delle generazioni che hanno vissuto la guerra. Dopo il fascismo, avevamo il desiderio di un’Italia nuova, pulita, senza soprusi e razzismi. Ci siamo illusi — conclude — che fosse ovvio, adesso fa davvero male vedere che non è così».