L’Immortalità – di Milan Kundera

D’altronde, direte voi, Milan Kundera non era già immortale quando scrisse L’immortalità? Ma sì, certo, ovviamente non nel senso religioso dell’immortalità dell’anima, è una questione che non c’entra nulla con la fede. 

Si tratta di una immortalità tutta terrena, l’immortalità di coloro che dopo morti restano nella memoria dei posteri.Questo è il motivo per cui non bisogna poi sorprendersi se nel bel mezzo del romanzo di Kundera arrivano tranquillamente altri immortali che dialogano fra di loro, ad esempio Hemingway e Goethe. Probabilmente tra immortali ci si conosce quasi tutti, si scherza, si bisticcia, si parla dei propri problemi. 

Anche Kundera quindi entra nel romanzo che lui stesso sta scrivendo, discute con i personaggi che ha inventato, si lascia contraddire da loro, li osserva divertito, a volte preoccupato, sono talmente vivi che ragionano con la loro testa, prendono decisioni che ti sorprendono o ti irritano e si può si può discutere di loro a cena come si fa tra di noi, cari amici, quando parliamo di altri amici che conosciamo. 

Anzi: immaginiamo che proprio Kundera sia arrivato adesso, insieme a Hemingway nella redazione de Il Riformista, e i due cerchino di sbirciare sul computer le prime righe che ho scritto. Kundera arriccia la fronte, fa una smorfia, Hemingway fa un sorriso ironico. Con tutto il rispetto per voi immortali, dico io, questa cosa mi dà fastidio, ho bisogno di tranquillità e di riflettere: scrivere una recensione su un libro come L’immortalità  non è affatto una cosa semplice, all’inizio ti sembra di non capire nulla. 

Ah, l’immortalità, dice Hemingway: è una vera seccatura! Io non ho nulla in contrario che la mia opera sia considerata immortale, i miei libri li ho scritti in modo che nessuno potesse togliere una parola. Ma io personalmente, io come uomo, come Ernest Hemingway, dell’immortalità me ne infischio! Sopraggiunge Goethe: è come se ti facessero un processo per l’eternità, rovistando tra le tue carte, le tue lettere, quelle dei tuoi amici, del tuo medico o di tua moglie. Tutti si sentono in diritto di dire la loro, di emettere la sentenza; ad esempio: arrivano Rainer Maria Rilke e Romain Rolland e nell’eterno processo che si celebra contro di me, sostengono che Bettina, quell’invasata pericolosa che pretendeva di essere la mia amante (ma quale amante! si è inventata tutto!) fosse l’incarnazione dell’amore perfetto, quasi divino e io, per non avere ceduto alle sue lusinghe, un essere mediocre, vigliacco, un poeta senile eccetera eccetera. Un orrore, vi assicuro, un orrore. 

Non si può stare in pace neanche da morti, è come se un giornalista del Fatto Quotidiano o della Verità continuasse a perseguitarvi, anche lì, nella tomba con le sue illazioni, i sospetti, i titoloni ad effetto. Una volta imbarcati sull’immortalità non puoi più scendere. 

Ha ragione! rincalza Hemingway, un uomo può togliersi la vita ma non può togliersi l’immortalità. Ma vedete: il problema è la preoccupazione per la propria immagine: questa è la fatale immaturità dell’uomo. E’ così difficile essere indifferenti alla propria immagine Una tale indifferenza è superiore alle forze umane. L’uomo ci arriva solo dopo la morte e neanche subito. 

Questo è esattamente uno dei temi del mio libro, dice Kundera. Agnes, l’eroina principale, non cerca l’immortalità, anzi forse la rifugge. Torna con la mente alla memoria del padre, forse l’unico uomo che ha veramente amato. Per il resto cerca di allontanarsi da tutto, marito, figlia, sorella, amante. Non sono sicuro di avere capito esattamente cosa cercava, è una donna piuttosto misteriosa… 

Ma scusi, Kundera, dico io, questo è paradossale!  Lei è l’autore, Agnes nasce da una Sua invenzione, come può non sapere cosa vuole il personaggio principale del Suo romanzo? Caro Cociancich, Lei è davvero ingenuo e forse anche distratto. Innanzitutto Agnes non nasce da me ma da un gesto: un gesto bellissimo che ho visto fare ad una donna sui sessant’anni mentre usciva dalla piscina. Ad un tratto si è voltata, ha sorriso leggermente e ha salutato alzando un braccio, come se volesse far volare dei palloni. Un gesto, capisce? I gesti sono importanti, sono fondamentali. Non siamo noi che usiamo i gesti per dire qualcosa ma sono i gesti che ci usano per esprimere il loro significato universale. Tutto il mio libro è costellato di gesti. 

A partire da un gesto (un paio di occhiali scuri che cade a terra…) la storia si dilata, emergono i particolari, i dettagli, nuovi personaggi, temi, dialoghi, riflessioni… E’ osservando i gesti che poco a poco nasce, come in una sinfonia, il romanzo. So bene, replico io, che per Lei, la composizione musicale è sempre stata la modalità con la quale ha costruito i suoi racconti. Storie individuali che come suoni di strumenti diversi vengono fusi in un solo spartito.  

Certo, risponde Kundera, perché in un romanzo è essenziale solo quello che non si può dire altro che con il romanzo. Se un pazzo che oggi scrive ancora romanzi li vuole salvare deve scriverli in modo che non si possano adattare, in altre parole: che non si possano raccontare. Non si può riassumere la Nona di Beethoven. In conclusione: caro Cociancich, il Suo tentativo di scrivere una recensione è patetico e destinato al fallimento. 

Ma come? rispondo. Non ho nemmeno cominciato, devo scrivere di Laura, del suo desiderio spasmodico di vivere, di essere amata, di assomigliare a sua sorella Agnes, di Paul, un intellettuale fin troppo sottile che finisce con le sue tesi sulla modernità per essere il “miglior amico dei suoi becchini”(quelli che lo licenzieranno consegnandolo al passato), di Rubens che cerca di realizzare il suo bisogno d’amore nelle multiformi prestazioni erotiche delle sue amanti; del desiderio di morire di una misteriosa ragazza al buio sulla strada… La fermo qui, dice Kundera, il Suo Direttore, MR, Le ha assegnato un massimo di 5.000 caratteri (per fortuna! aggiunge). Lei li ha ormai superati. Se i Suoi lettori, se voi lettori desiderate saperne di più dovrete leggere il libro. Hemingway, Goethe ed io saremo lieti di accompagnarvi, conclude sorridendomi.

Roberto Cociancich

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